LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT
Ieri è uscito “Lo chiamavano Jeeg Robot” e sono andato a vederlo.
Il trailer mi aveva convinto, le interviste anche, le recensioni pure.
Short version:
Prima di andare al cinema informatevi su cosa state andando a vedere… poi andate assolutamente a vederlo!
Long version:
Molte persone vedono il titolo e partono prevenute: “oddio, mi stanno stuprando un mito dell’infanzia”; “Jeeg Robot è una trovata per farsi pubblicità”.
Molte persone vedono che è un film italiano e partono prevenute, spesso non a torto, per carità. Io stesso non ho molta fiducia nel cinema italiano odierno.
Molte persone dovrebbero smettere di fermarsi all’etichetta per capire un film.
Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) scopre i suoi poteri.
Lo chiamavano Jeeg Robot NON è un film su Jeeg (specifichiamolo, va), ma è un signor film, soprattutto se ti rendi conto di cosa stai andando a vedere. Ieri al cinema, a fianco a me c’era una donna con un bambino di 7-8 anni. Quella donna si è fermata al titolo e ha portato il figlio/nipote a vedere un film crudo, violento, sboccato, sessualmente esplicito, forte, sanguinolento e adulto. NON è un film per bambini, signora mia. Magari 30 secondi su internet per capire che film fosse poteva anche spenderli. Una volta capito il tenore poteva anche portar via il bambino, magari. Anche il personale del cinema, al controllo dei biglietti, uno sforzo poteva farlo, visto che il rating era +13. Comunque è chiaro che il grado di attenzione e approfondimento della massa si ferma all’etichetta (spesso neanche a quella).
L’uomo con i super poteri diventa icona murale.
Se capite cosa state andando a vedere, al di là dei gusti, non potete non essere d’accordo sul fatto che questo film dimostra che il cinema italiano non è morto.
Gabriele Mainetti, al suo esordio nella regia di un lungometraggio, dimostra che forse qualcosa sta cambiando. Lo chiamavano Jeeg Robot non è un film perfetto ma è coinvolgente, commovente, violento e quando esci dalla sala ti lascia qualcosa. La storia alla fine è assolutamente classica ed è costruita sui canonici tre atti, ma il modo in cui viene raccontata, sia attraverso la sceneggiatura che attraverso le scelte registiche e di recitazione, ti fa scordare lo schema e ti porta a concentrarti sui personaggi e sul loro percorso. È proprio questo che dovrebbe fare il cinema: stupirti anche quando continua a raccontarti la stessa storia. Il cinema supereroistico ormai si basa principalmente sulla costruzione scenica e sugli effetti speciali e molto spesso tutto finisce lì. Il film di Mainetti ha effetti speciali dignitosi, niente di eccezionale magari, ma sono funzionali alla storia e l’aiutano, senza sovrastarla, perché la storia sta in piedi da sola.
Il nome di Jeeg Robot non è usato a sproposito, c’è una ragione ben precisa. Jeeg è un’ossessione e un’ispirazione… e funziona magnificamente. Inoltre il titolo a me richiama (tutt’altro che a caso, credo) Lo chiamavano Trinità, un film che ai suoi tempi aveva infuso nuova linfa nel cinema italiano.
Luca Marinelli in uno dei manifesti del film.
La critica ha elogiato le doti attoriali di Luca Marinelli nella parte dell’antagonista (a ragione), ma anche il lavoro di Claudio Santamaria (il protagonista) e di Ilenia Pastorelli (la fragile ragazza) sono di assoluto rilievo.
A molti sicuramente disturberà la pesante parlata romanesca (anch’io non ero proprio entusiasta), ma a ragion veduta non si poteva fare altrimenti. Questo film è italiano nel miglior senso del termine e, come nella miglior tradizione neorealistica del nostro cinema, non poteva essere altrimenti: piccoli criminali di Roma come dovevano parlare? La gente storce il naso, pensando ai blockbusters hollywoodiani doppiati in italiano, ma si scorda che quei film sono stati girati in un inglese tutt’altro che british, ricco di sfumature, slang, accenti e inflessioni che il pubblico italiano non è esattamente in grado di cogliere. Andatevi a vedere la prima stagione di “True Detective” in lingua originale e spiegatemi quanto poteva essere credibile un Matthew Mcconaughey che, invece di parlare con un pesantissimo accento sudista, avesse parlato in Oxford English.
Ilenia Pastorelli e Claudio Santamaria in una scena del film.
Il film non ha nessuna delle tipiche debolezze dei film di supereroi: non pecca di spiegazionismo, non ha particolari buchi di sceneggiatura, i tempi sono tutti giusti e, soprattutto, non fa il verso al cinema americano.
Se dovessi trovare un difetto a questo film lo cercherei nel comparto audio, settore nel quale noi italiani abbiamo una certa debolezza. La microfonazione e l’equalizzazione dell’audio, in alcuni passaggi, risultano un po’ impastati e non di semplice comprensione. La sonorizzazione (doppiaggio dei rumori) invece non è male. La scelta di una colonna sonora fatta di classici della canzone pop italiana è azzeccata, oltre che funzionale al personaggio dello “Zingaro”.
Non mi resta che aggiungere una cosa: andate a vederlo.
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